Questo articolo è stato originariamente pubblicato nel 2018.
C’è un versetto nella porzione Kedoshim con tre parole che conosciamo bene - Ve’ahavta Lere’acha Kamocha, ovvero “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Rav Akiva, il maestro di Rav Shimon Bar Yochai, ha affermato che raggiungere questo stato in cui amiamo gli altri come amiamo noi stessi è lo scopo di tutti gli insegnamenti spirituali e di tutto il nostro lavoro spirituale.
Rav Ashlag scrive a riguardo in Wisdom of Truth, ed è un insegnamento che ho condiviso molte volte; tuttavia, ho finito per acquisire una comprensione completamente nuova di Ve’ahavta Lere’acha Kamocha e di cosa significhi nel concreto. La verità è che la maggior parte di noi pensa di sapere cosa voglia dire amare il nostro prossimo come noi stessi, ma dubito che qualcuno sia anche solo lontanamente vicino a viverlo. Il problema, come insegnano i kabbalisti, è che tutto ciò che facciamo al di fuori di questo non è un aspetto del vero lavoro spirituale. Dobbiamo capire, spiega Rav Ashlag, che tutte le altre azioni, gli strumenti, i comandamenti e gli insegnamenti hanno un solo scopo: portare ciascuno di noi individualmente, e il mondo nel suo insieme, a uno stato di amore per gli altri pari a quello che abbiamo per noi stessi. Gli studi nella Torah sono commentari, spiegazioni e comprensioni di quest’unico insegnamento, e ci portano allo stato di queste tre parole.
Tuttavia, prima di poter anche solo provare a comprendere perché ciò sia vero, dobbiamo capire cosa significhino effettivamente queste tre parole, poiché penso che la maggior parte di noi le fraintenda. Pensiamo che raggiungere lo stato ultimo di prendersi cura e amare gli altri come facciamo con noi stessi significhi occuparsi di tutto ciò di cui abbiamo bisogno e poi occuparci anche delle necessità di qualcun altro. Ma non è ciò che dice questo versetto; non dice “Ama anche il tuo prossimo”. Dice di amarlo come te stesso. Significa condividere e prendersi cura dell’altro in ogni aspetto, proprio come facciamo con noi stessi. Significa osservare sempre coloro che ci circondano e soddisfare le loro esigenze e desideri prima di soddisfare i nostri. Ad esempio, se stiamo per mangiare cereali al mattino, prima che il cucchiaio arrivi alla nostra bocca, guardiamo se c’è qualcun altro nel mondo che non ha cereali e corriamo a garantire che ognuno di loro li abbia. Solo allora possiamo tornare a casa e consumare i nostri.
È importante renderci conto di quanto, secondo me, ci siamo illusi di vivere secondo questo insegnamento, quando vediamo che i numerosi libri che abbiamo letto, le lezioni che abbiamo ascoltato, le azioni di condivisione che abbiamo compiuto e le connessioni che abbiamo stabilito sono stati inutili a meno che non ci stessero portando verso Ve’ahavta Lere’acha Kamocha. E ci illudiamo se diciamo “Devo solo diventare una persona più generosa e di condivisione”, perché quando lo facciamo, teniamo fede solo a due di quelle tre parole – prendersi cura o amare gli altri. Ma le parole sono tre: amare e prendersi cura dell’altro come facciamo con noi stessi.
C’è un concetto che Rav Ashlag condivide che lo dimostra. Parla di cosa significhi per una persona che ha un servitore prendersi cura di lui. Dice, ad esempio, che se ci sono due cuscini in casa, prima di appoggiare la testa sul suo cuscino il padrone si assicura che il suo servitore ne abbia uno. Dice che prima di mangiare il suo cibo il padrone si assicura che il servitore ne abbia. Ma soprattutto, dice che se c’è solo un cuscino o c’è solo una bistecca, il padrone deve assolutamente assicurarsi che il servitore l’abbia per primo.
Rav Ashlag prosegue spiegando che vivere questo insegnamento non significa condividere o essere una persona spirituale. Egli vuole che ci rendiamo conto che quando dice di amare gli altri quanto amiamo noi stessi, significa, innanzitutto, assicurarci sempre che le esigenze degli altri siano soddisfatte prima delle nostre e, in secondo luogo, che se c’è solo un modo per soddisfare le nostre esigenze o quelle di qualcun altro, dobbiamo prenderci cura prima di tutto dell’altro, anche se significa rimanere con nulla.
E questo penso che vada ben oltre la posizione in cui la maggior parte di noi si trova. Perché tutto ciò che facciamo di natura spirituale o di condivisione o nel creare connessioni ha in realtà un solo scopo: raggiungere quello stato. Quindi dobbiamo chiederci quante volte, nell’ultimo anno o addirittura nella nostra vita, abbiamo compiuto un’azione in cui c’era qualcosa di cui avevamo bisogno e di cui qualcun altro aveva altrettanto bisogno, e l’abbiamo data prima a lui.
Non siamo esseri di condivisione solo perché mettiamo in pratica le prime due parole e ci prendiamo cura degli altri, piuttosto che prenderci cura degli altri quanto ci prendiamo cura di noi stessi. Sì, mettendo in pratica queste prime due parole, saremo persone spirituali buone e che piacciono agli altri, perché diamo quando vogliamo, quando possiamo o quando ci è comodo. Ma non stiamo vivendo Ve’ahavta Lere’acha Kamocha. Sforzarci di dare prima a qualcun’altro quello di cui abbiamo bisogno deve diventare una parte integrante della nostra vita. E quando lo capiamo davvero, è uno di quegli insegnamenti che possono davvero cambiare non solo la nostra prospettiva, ma anche il nostro modo di vivere ogni giorno.